Dimmi cosa bevi e ti dirò chi sei. Sembra facile, quasi ovvio, ma in realtà dietro all’aspetto psicologico e temperamentale dell’appassionato di vino c’è dell’altro. Insomma, se è vero, come spesso si dice, che certi vino hanno “carattere”, altrettanto vero è che questo si accompagna anzi viene quasi assimilato da chi lo predilige. Ma non è tutto. “In vino veritas”, nel vino c’è la verità, non ha che fare con la nostra psiche più profonda? E ancora: non si dice spesso che per essere un buon sommelier bisogna anche essere un ottimo conoscitore dei propri clienti, in altre parole un ottimo psicologo? Insomma, inconscio e vino hanno ben più legami di quanto ci si possa immaginare. E l’hanno capito perfettamente due psicologi milanesi, Fabio Sinibaldi e Giuseppe Ferrari, appassionati di vino (tanto da aver aperto una prestigiosa enoteca a Milano) e autori di un saggio intrigante: “Vino e psicanalisi”. A loro abbiano chiesto di farci capire meglio quali sono i rapporti fra vino e inconscio. Per approfondire l’argomento abbiamo sentito anche l’opinione di un sociologo ed esperto di tradizioni, il trevigiano Ulderico Bernardi, e del presidente di Ais Lombardia, Luca Bandirali.
FABIO SINIBALDI, psicoterapeuta
Il vino ha un preciso rapporto con il nostro inconscio, in modo preponderante con l’area legata al piacere. E’ possibile, quindi, abbinare un certo tipo di vino alla personalità. Ad esempio, il tipo psicologico “Amarone” è una persona introversa a cui interessa molto il mondo delle idee, è curioso e audace, ed è uno stratega eccellente. Il tipo “Spumante”, invece, ha una personalità motivata, è entusiasta e pieno di interessi, è empatico e spesso divertente. Non si tratta di semplici constatazioni empiriche, ma esiste un evidenza precisa, basata su studi scientifici neurologici, che indicano come determinate sostanze presenti in certi vini stimolino precisi recettori. Anche la velocità di trasporto dell’alcol verso questi recettori, e quindi i suoi effetti, variano rispetto alla tipologia del vino: nello spumante, grazie alla presenza di anidride carbonica, l’effetto inebriante è più intenso rispetto ai vini rossi, lo possiamo in qualche modo paragonare a quello di alcune sostanze psicotrope, il cervello reagisce prima e viene stimolata l’attività sociale. Nei rossi, invece, si è più portati alla meditazione e all’introspezione. Al di là della piacevolezza gustativa, dunque, il vino ha anche un preciso coinvolgimento sociale, differenziato da vino a vino. Non solo, anche la confezione, il tipo di etichetta, il packaging stesso del vino hanno un preciso effetto. Nel vino vale molto quello che viene chiamato marketing percettivo: la confezione in qualche modo amplifica le sensazioni e determinati vini appaiono più freschi, più saporiti già guardando la confezione. In psicologia questo effetto viene chiamato “effetto alone”, ossia l’aspettativa influenza molto la scelta di un vino, Si può dire in qualche modo che il vino inizi a fare effetto ancora prima di averlo bevuto. Per questo molti vini, se bevuti alla cieca, si dimostrano meno buoni.
C’è anche un elemento trasversale, ossia il rapporto fra piacere e trasgressione. Gli adolescenti bevono l’alcol per andare oltre, per esagerare. Si tratta di un falso mito, in quanto l’adolescente fa in realtà un uso strumentale dell’alcol, per lui una sostanza vale l’altra, per questo è sbagliato demonizzare il vino. Bisognerebbe invece imparare a capire che il vino, come altre forme di piacere, può essere controllato. Bere vino deve diventare una sorta di dialogo col piacere, deve rafforzarlo. Bisogna saper dosare, imparare a degustarlo nel modo giusto come fanno i sommelier, capire quando si può andare oltre senza esagerare e invece quando rimanere indietro. Questo controllo dipende ovviamente dalle capacità di ognuno di noi. L’uso del vino dipende anche da determinati contesti sociali e va quindi abbinato di conseguenza. Ad esempio, per un incontro galante proporrei uno Champagne millesimato, un vino morbido dal profumo eccitante, ai cui lieviti le donne sono particolarmente sensibili. In chiusura magari un vino dolce, capace di dare una maggior completezza all’esperienza vissuta nel parallelismo tra la cena appena vissuta e la relazione che si sta costruendo tra i due.
GIUSEPPE FERRARI, psicoterapeuta
Il lavoro che ognuno di noi fa col proprio inconscio, la ricerca nel conoscere meglio noi stessi, è molto simile a quello che avviene nel mondo del vino, dove gli appassionati ricercano i gusti, i sapori e gli abbinamenti. Il paragone è ancora più preciso se si pensa che, in fondo, nella conoscenza del vino, si cerca di sapere il terreno in cui è stato coltivato, il vitigno da cui si è sviluppato, il lavoro del viticoltore che ci sta dietro. Tutto questo lega l’inconscio al bere: come noi cerchiamo alla radice del nostro inconscio, così del vino si cerca l’origine, la provenienza. Possiamo definirlo un inconscio collettivo, quello della ricerca nel vino, che riporta poi alla base, cioè alla terra. Inoltre si tratta di una ricerca spesso fatta in convivialità. La natura ci rende simili, il vino rappresenta proprio questo, il terreno comune che abbiamo sotto i piedi. Ed è un significato metaforico profondo. La ricerca fatta dal sommelier, che del vino analizza le più particolareggiate caratteristiche, è un aspetto prevalente. Inoltre, serve anche per avvicinarsi all’altro, per cercare di conoscere qualcosa di più del carattere chi ci sta intorno. Il vino crea vicinanza, empatia con gli altri, si fonda su un rapporto basato sulle emozioni più profonde. Bisogni simili a quelli dell’analisi psicologica. Il vino aiuta ad abbattere i preconcetti, ci aiuta ad approcciarci verso gli altri su aspetti relazionali. E’ ricco di emozione e legato all’irragionevolezza. Un vino che più di altri possiede queste caratteristiche trovo sia lo Sforzato, proprio perché si tratta di un vino dai caratteri molto marcati, che rimandano direttamente alla terra. Aiuta ad abbattere le resistenze, toglie le inibizioni e rimanda a qualcosa di vero, di originale, quindi ai valori di base. Gli spumanti, invece, da punto di vista cognitivo servono più ad abbattere i limiti razionali, la loro struttura chimica facilita le vie neuronali e le emozioni arrivano prima. C’è una vicinanza più metaforica, siamo vicini alla natura, quindi più vicini all’inconscio. Se dovessi bere un vino con un paziente, berrei un vino corposo, da meditazione. I vini frizzante invece sono più adatti ai rapporti di gruppo. Possiamo leggere sotto una luce diversa anche il famoso detto “in vino veritas”. E’ vero, ma non solo perché il vino ci permette di scoprirci veramente, ma perché ci avvicina ai comportamenti dell’altro, non solo perché inibisce fisiologicamente per la presenza dell’alcol, ma perché ci fa percepire immediatamente una vicinanza emotiva. In pratica è come un legame che ci rende simili, ci spinge verso tutti i bisogni naturali degli esseri umani. Fare il sommelier è un po’come fare lo psicologo, perché i bisogni sono fondamentalmente gli stessi. La passione, lo studio del vino è una professione che aiuta noi stessi ma ci avvicina anche gli altri. Il sommelier, dando consigli e aiuti, cerca anche questo legame, perché il vino permette di comunicare e di riflettere insieme. Allo stesso modo il vino si avvicina anche all’arte. Il cervello ha due aree distinte con differenti funzioni mentali, una legata alla creatività, l’altra alla razionalità. L’immediatezza emotiva del vino è legata proprio alla parte impulsiva o dell’intuizione, proprio come avviene con l’artista. Per questo il vino può essere considerato un tramite, va più a colpire le aree emozionali o delle sensazioni. L’elaborazione e il cercare di spiegare il vino razionalmente sono aspetti secondari, vengono dopo. Il vino crea emozioni e per questo può essere rapportato alla mente artistica. Aiuta a percepire meglio la realtà e ad essere più artisti nella modalità di percepire.
ULDERICO BERNARDI, sociologo
Le cose buone non conoscono decadenza. Così dovrebbe essere, dato che i cinque sensi non cambiano. In realtà, il mutamento sociale comporta anche un diverso apprezzamento del buono e del bello. Anche in ambito alimentare. Ci sono odori al mutare dei tempi non vengono più tollerati, sapori che diventano sgraditi, suoni che da accetti si fanno insopportabili, immagini in altre epoche ripugnanti che assurgono a capolavori, sensazioni tattili che si fanno detestabili. Ogni cultura, a seconda dei luoghi e dello scorrere della storia, matura i suoi giudizi. Oggi, su ogni altro senso sembra imporsi la vista. Non per nulla si parla di società dell’immagine. È premiato chi riesce a catturare l’attenzione. La pubblicità è un business di proporzioni colossali. Chi è maggiormente abile nel proporre il messaggio vince. Abile vuol dire che sa trasmettere un’idea conforme al costume mentale del suo tempo. Nel nostro mondo, ipertecnologico, al primo posto nella gerarchia degli apprezzamenti si collocano la bellezza fisica, il lusso, la natura sgombra di ogni ruvidità, di fatto immaginaria. Uomini e donne, paesaggi e oggetti, s’impongono entro uno scenario di ricchezza, prestigio e potere. Anche la riscoperta della campagna e dei suoi frutti come bene rifugio rientra in queste logiche. Un tempo, nella semplicità dei proverbi, a un buon vino era richiesto d’essere solo ciàro, amaro, avaro, per rientrare nei canoni del consumo raffinato. Volendo specificare ancor meglio, nella triade dei cibi di base, l’eccellenza si raggiungeva con le seguenti caratteristiche: pan coi oci, formagio senza oci e vin che salta ai oci! Pane ben levato, formaggio spesso, e vino frizzante. Onore della massaia, del casaro, del vignaiolo. Senza ulteriori specifiche. Nella società dell’agroindustriale è l’etichetta che conta. Un marchio d’impresa che incorpora una pluralità di significati. A giustificare il prezzo esorbitante. A promuovere di rango chi se lo può permettere. A spiegare la cerimonia che si allestisce intorno alla bottiglia. Dall’apertura alla mescita, comportando un susseguirsi di prove da parte di chi impugna il calice: impegnando l’olfatto, la valutazione della limpidezza, l’assaporare, l’assenso manifesto (una sorta di applauso silenzioso). Tutti i sensi coinvolti in un rito sociale che ha tutte le caratteristiche del conferimento d’una onorificenza. Che i commensali prescelti, elevati di rango per il solo fatto di condividere la bevuta, attribuiscono a colui che ha saputo dimostrare la sua ricchezza, il suo potere e il suo prestigio richiedendo quella marca di vino. Costoso e magari anche buono.
LUCA BANDIRALI, presidente Ais Lombardia
Un buon sommelier deve sicuramente essere anche un ottimo psicologo. E’ la carta vincente per il nostro lavoro proprio perché, essendo a contatto con le persone più diverse, sia per estrazione che per formazione culturale, e con le esigenze più disparate, è importante capire subito chi abbiamo di fronte. Bisogna saper cogliere al volo cosa il cliente si aspetta da noi e creare un feeling speciale che possa fare la differenza nel nostro operato. L’errore che spesso oggi si fa, in una società che corre sempre più fretta e non ha tempo di soffermarsi sui particolari, è quello di non aver l’accortezza di percepire appieno le esigenze dell’altro. Saper recepire ed ascoltare queste esigenze possono invece essere elementi utili in funzione delle proposte che poi si vanno ad offrire. Che non devono sempre essere legate per forza verso la scelta assoluta di un prodotto costoso. Bisogna essere percettivi e propositivi insieme quando si consiglia, esulando dall’aspetto prettamente commerciale. Credo che si possano distinguere due fasi in cui è necessario porre attenzione agli aspetti psicologici nel nostro lavoro. La prima avviene quando il cliente entra nel locale e si accomoda. A quel punto è necessario individuare il prima possibile chi ha la funzione di “leader” nel gruppo, aspetto questo da non trascurare assolutamente. Questo diventa la nostra persona di riferimento, quella a cui dobbiamo rivolgerci, facendo attenzione soprattutto ai piccoli gesti. Bisogna anche saper percepire subito lo stato d’animo, l’umore dei nostri clienti, capire insomma chi ha premura e chi invece desidera un po’ di relax. I dettagli fanno la differenza. Dopo questa prima fase di approccio dovrebbe scattare una sorta di complicità professionale. La scelta del vino deve attenersi a molti fattori, fra cui l’aspetto psicologico è sicuramente uno dei più importanti. Le “bollicine”, ad esempio, rappresentano un ottimo biglietto da visita come proposta di entrée, perché creano una comunicazione conviviale. I rossi, invece, hanno tutt’altre aspettative, richiedono un approccio diverso e se volgiamo un po’ più impegnativo. L’importante, comunque, è il far vivere un’esperienza in funzione del vino che viene servito, ma sempre con discrezione e mai con saccenza. Bisogna saper acquisire un feeling speciale con i clienti. Nei corsi Ais, ovviamente, si toccano questi temi ma, soprattutto in ambito professionale, credo vadano sviluppati un po’ di più e presi in maggior considerazione. L’attitudine al sorriso, la battuta equilibrata sono elementi fondamentali che creano rilassatezza nel cliente. Bisogna essere, prima di tutti, buoni osservatori, cosa non facile, per ottenere la massima soddisfazione professionale.
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