Cosa succede quando l’uomo di marketing più irriverente e iconoclasta degli ultimi decenni si mette in testa di produrre vino? Ovviamente che ne vien fuori un prodotto sui generis, con una filosofia personalissima e spiazzante, che va contro modi e stilemi dell’enologia tradizionale. Lui è Oliviero Toscani, milanese classe 1942, arcinoto per le sue campagne pubblicitarie che non lasciano mai indifferenti, da quella celeberrima del “lato B” femminile in primissimo piano per i Jeans Jesus negli anni ’70 che scandalizzò persino Pasolini, a quelle, quasi sempre provocatorie, per Benetton (tra tutte quella del bacio “sacrilego” fra un prete ed una suora del 1991) che gli causarono numerose citazioni in giudizio.
Può un personaggio del genere produrre un vino normale? Lo abbiamo chiesto direttamente a lui, approfittando della sua presenza come ospite d’onore nella tappa di Valdobbiadene della rassegna “Sorsi d’autore”, organizzata dalla Fondazione Aida con la collaborazione di Ais Veneto.
“Penso che il mio sia l’unico vino che non ha nome specifico – racconta – ma solo un marchio: Otwine. Viene prodotto nella mia fattoria pisana di Casale Marittimo, che possiedo dagli anni Settanta, con 120 ettari di terreno. Prima facevo solo allevamento di cavalli e producevo olio, poi a partire dal 2000, grazie alla spinta e all’aiuto di Angelo Gaia, ho piantato uve syrah, cabernet franc, petit verdot e teroldego, con l’idea di produrre un vino unico. Sono vigneti piantati in una zona molto elevata, credo la più alta dei dintorni, visto che siamo solo a quattro chilometri da Bolgheri. I risultati, grazie anche al lavoro dell’enologo Attilio Pagli e dell’agronomo Federico Curtaz, sono stati eccellenti e gli hanno meritato giudizi positivi sulle guide de L’Espresso, del Gambero Rosso e del Seminario Veronelli”.
L’Otwine è un “supertuscan” da uve syrah (50%), cabernet franc (35%), petit verdot (15%) vinificate separatamente e prodotto in due versioni, una affinata dopo 14-16 mesi passati in barrique ed una senza affinamento, da bere subito. Com’è nata l’idea? “All’inizio volevo solo appagare il mio senso estetico con una vigna ad anfiteatro fuori dalla finestra di Casale Marittimo, ma oggi è diventata una vera vocazione. Non volevo però fare il solito vino toscano pesante, da funerale, bensì un vino allegro, da battesimo o da matrimonio. Un vino unico, che abbia una musicalità mozartiana, piuttosto che wagneriana”.
Ma fra la produzione di olio e vino, Toscani quale preferisce? “Non si possono fare paragoni, sono due cose totalmente diverse. Se il vino è un alimento, l’olio è, come nelle auto fra l’altro, un ingrediente essenziale per far girare il “motore” dell’uomo. È indispensabile, quasi un ingrediente cosmetico o salutistico, tanto che secondo me si dovrebbe vendere in farmacia. Eppure spesso non gli diamo troppa importanza, sbagliando, quando invece andrebbe valorizzato di più. Anche tecnicamente l’olio è diverso dal vino, molto ma molto più complesso da produrre”.
Dulcis in fundo, il “Toscani pensiero” sul vino italiano. “Sul vino i francesi hanno almeno 400 vendemmie sulle spalle più di noi, inoltre a loro manca quella mentalità campanilistica che invece a noi ci penalizza. È vero, la viticoltura in Italia è cresciuta tantissimo negli ultimi 30 anni, anche grazie all’attività di promozione e comunicazione svolta dai sommelier. Ma rimane ancora molto da fare. Purtroppo è un prodotto ancora oggi trattato con metodi sorpassati. È come se, ad esempio, per arredare la mia casa mi rivolgessi solo dall’antiquario. Ecco, nel vino bisognerebbe fare la stessa cosa: modernizzarsi. Serve un cambio di mentalità culturale ma nello stesso tempo anche etico. Ci vuole una nuova visione, anche un po’ morale, e soprattutto imparare a fare sistema”.
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