È uno dei luoghi di culto della ristorazione trevigiana. Situato a Miane, ai piedi delle prealpi trevigiane, il Ristorante “Da Gigetto” è da decenni un punti di riferimento per la gastronomia territoriale e il buon cibo. A idearlo sono stati Luigi Bortolini e la moglie Elda, quando ereditarono la gestione della “Locanda con stallo alla Stella”, un luogo di ristoro attivo già dai primi del ’900. Ma oggi, a condurre la cucina del locale, è il figlio Marco Bortolini, arricchito dalla scuola paterna e da importanti esperienze presso cuochi famosi in Italia e all’estero, dove ritorna spesso nei periodi di ferie. Serio, intelligente, impegnato, vero cultore della cucina di qualità, Marco ai piatti della tradizione, sempre presenti, sta via via aggiungendo le sue creazioni.
“Ho frequentato l’alberghiero a Vittorio Veneto – racconta Marco – e da lì ho iniziato i miei primi stage formativi. Prima con Fulvio De Santa al ristorante “San Clemente” di Padova, dove ho lavorato per quasi un anno, poi a Vicenza con lo chef Gianfranco Minuz. Grazie a mio padre Luigi ho fatto esperienza anche in un locale più grande, al Ristorante da Roni a Gradiscutta di Varmo (UD), quindi da Sadler a Milano. Per lavoro ho fatto anche molte esperienze all’estero, dalla Cina a Montreal, perché ritengo che nel mio mestiere l’aggiornamento sia fondamentale”.
Quant’è difficile subentrare ad un ristoratore famoso come tuo padre? “È tutt’ora un duro compito – confessa – quello del passaggio generazionale. Lui, in realtà, era più un ristoratore a tutto tondo. Ha iniziato come cuoco ma poi ha preferito concentrarsi sul creare una squadra lavorativa altamente professionale. Io preferisco concentrarmi sul mio impegno in cucina, ma sempre in sintonia con chi opera in sala, dove da qualche anno lavora mia sorella Monica, perché se manca il feeling fra questi due aspetti della ristorazione, non si approda a nulla. Si può cambiare la tipologia della cucina, cercando di innovare, ma non è una semplice questione di ricette. Deve crearsi un sistema, con alla base una valida filosofia, perché tutto funzionai alla perfezione e si ottengano risultati apprezzabili”.
Come definiresti la tua cucina? “La mia cucina parte dalla tradizione, anzi direi dal territorio, dando spazio a tutti quei prodotti che fanno parte della nostra storia gastronomia. La gente conosce il ristorante per questi prodotti, per i sapori legati alla tradizione, come le “Lumache alla Gigetto”, la “Soppressa di casa con radicchio in agrodolce”, i “Tortelli d’anatra”, la “Sòpa coàda”, la “Crema di fagioli di Lamon”, la “Faraona con la peverada” e ci sono piatti di ascendenza medioevale, come il “Coniglio in saòr”. Sono piatti che non mancano mai nel nostro menù. È la base di partenza, ma da qui poi mi piace aggiornare le tecniche e contaminare la mia cucina con prodotti magari anche meno noti. Un esempio? La radice di prezzemolo, un prodotto quasi scomparso ma che meriterebbe una valorizzazione”.
Quali sono, oggi le qualità di un buon chef? “La dote principale deve sempre essere la freschezza dei prodotti. La gente viene qui soprattutto per i prodotti della tradizionale, ma a me piace che la spinta sia anche quella di provare tecniche nuove, come le cotture lente a basse temperature, o ingredienti alternativi. Mi piace anche la contaminazione con altre cucine: quando sono stato a Tokyo ho cercato di capire le tecniche e i modi di cucinare, da cui ho tratto ispirazione cercando di adattarle ai miei gusti. Dopo la grande svolta della cucina molecolare di Ferrà, oggi va molto la cucina con cibi poco cotti, densità, struttura e spume, una cucina veloce, e anche la cucina mediterranea sta ritornando in auge. Ed è proprio questo che ho imparato da mio padre: in cucina non ci si deve fermare mai perché c’è sempre qualcosa da imparare”.
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