I giovani chef emergenti? Bravi. Ma se uscissero un po’ più spesso dalla cucina per visitare musei, vedere un film o andare a teatro non gli farebbe male. Parola di Diego Tomasi, chef del Basilisco, locale che nei suoi 22 anni di vita ha conquistato i palati non solo dei trevigiani ma anche di un pubblico di appassionati più internazionale. “Ristorante, semplice e variopinto all’interno, che ruota tutto intorno ad un’ottima cucina” lo descrive la Guida Michelin, in cui il locale è presente da anni. Ma andando un po’ più in fondo alla proposta di Diego si apre un mondo fatto di recupero delle tradizioni con un tocco di creatività non banale, ma soprattutto di una valorizzazione di quelle che volgarmente son definite le “frattaglie”, ovvero gli scarti che raramente finiscono sul piatto.
“Mia madre aveva una rosticceria, ma la cucina mi interessava fino a un certo punto. Fino a che non ho scoperto che i cuochi viaggiano moltissimo e questo aspetto mi interessava. Col tempo è subentrata la passione e così ho deciso che sarebbe diventata la mia professione. Dopo diverse esperienze all’estero sono rientrato in Italia, a Venezia, dove ho cominciato ad appassionarmi ai bacari veneziani ed al cibo povero da osteria. Il mio secondo chef era di Treviso e mi ha iniziato alle osterie trevigiane che mi sono piaciute anche di più. Treviso è una città fantastica, a trenta chilometri dalle Dolomiti e dall’Adriatico, e per un cuoco è una festa ed una grande opportunità anche perché ha una pianura ortofrutticola unica”.
“Il principio alla base della mia scelta – racconta – parte da un discorso etico e di sostenibilità. Già venti anni fa trovavo giusto e rispettoso verso un animale che muore per noi di utilizzare tutte le sue parti. Soprattutto perché ho sempre pensato che gli scarti fossero gastronomicamente molto interessanti”. Classe ‘69, originario da Mezzocorona ma dagli anni ‘90 in pianta stabile qui a Treviso, Diego dopo la scuola alberghiera ha iniziato a fare esperienze importanti all’estero: Germania, Inghilterra, Stati Uniti e soprattutto Francia, in Borgogna e a Parigi. Per poi rilevare, a fine ’93, la celebre osteria Ponte Dante, lasciata nel ’98 per aprire il suo primo e vero ristorante, Il Basilisco nella decentrata e anche un po’ difficile da trovare via Bison, nel quartiere di Fiera.
Prima al Ponte Dante, ma poi soprattutto al Basilisco, Diego ha iniziato a mettere a fuoco la sua passione per la cucina povera, incrociandola con quella internazionale. “Quando preparo un menù seguo da sempre il precetto di uno chef, mio grande maestro, secondo cui deve rispondere a “tre dove”: da dove vieni, dove ti trovi e dove sei stato. In questo modo il tuo menù parlerà sempre di te. Nella mia cucina c’è un po’ di radice trentina, c’è l’utilizzo solo di prodotti del territorio e metto anche sempre qualcosa che ho ricevuto dalle mie esperienze in giro per il mondo”.
Un esempio è la cena “dal naso alla coda”, cinque serate a tema in occasione della ricorrenza della Madonna della Salute. “Tutto è nato nove anni fa dalla sfida lanciata da alcuni giornalisti e politici romani che, in visita a Venezia, sostenevano che solo a Roma si mangiavano le interiora come si deve. Così ho deciso di portarli qui e stupirli con una piccola maratona nel quale ogni animale e ogni taglio venisse valorizzato. Si parte dagli animali da cortile, con fegatini e duroni di anatra, poi si passa al maiale, con la coppa di testa, la cotenna e le orecchie di maiale fatte in crocchetta, quindi al manzo, con midollo, nervetti e filoni di vitello, per finire con le frattaglie più nobili, barboni, coda, rognone, animella e fegato. Non manca mai la zuppa calda, un triplo consommé chiarificato con crostini di milza, dedica alla mia terra di origine”.
Diego, assieme alla sua compagna giapponese Kozue Takahashi, conosciuta a Treviso, regala anche un’altra occasione speciale ai trevigiani di provare la sua cucina. Il giorno della Vigilia prepara aringa e bigoli in salsa, che offre ai suoi clienti, in turni di un’ora che terminano alle 16, pagando solo quello che si beve. Una sorta, forse, di omaggio al suo film preferito, “Il pranzo di Babette”, dove una grande cuoca francese prepara un pranzo di altissima cucina ad una piccola e chiusa comunità di un villaggio danese.
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